• TRAMA DI LA VEGETARIANA

    La violenza produce sempre altra violenza o a volte anche dissenso, e questo come si manifesta? Che forma assume e chi coinvolge? Esiste una misura contenitiva per bloccarne il rapido dilagare?

    Yeong-hye si fa scheletro e ossatura di tali domande. Capisce che esiste una gerarchia di male e di dolore, ne interpreta le sinfonie e si trasforma in ciò che vuole. Siamo in Corea del Sud, ogni famiglia è guidata da un patriarca. Non esistono prospettive che contano se non quelle degli occhi di chi desidera e possiede. Il potere è una questione di essere, non certo di fare. Si acquisisce e si eredita secondo una fitta sequenza di codici biologici inscritti alla nascita. Non domanda la sua origine, non chiede di mutare.  È proprio dallo spettro maglino dell’immutabilità che Yeong-hye fugge.  Prima è un sogno, poi è realtà.  Un incubo terribile, di sangue e di pelle, di volti sconosciuti, di boschi fitti e oscuri.  Tutto ha inizio una notte qualunque, di una serata qualunque, di una giornata qualunque. Il marito la trova in piedi davanti al frigo, completamente immobile mentre contempla un al di fuori.  La mattina seguente sua moglie è diventata vegetariana. Così crede, colto di sorpresa da quel cambiamento improvviso di routine. La sua vita tanto ordinaria quanto la donna che aveva deciso di sposare, aveva ridiretto la sua rotta. La carne rappresenta il ricordo di quel sogno incessante che si estende ai momenti di veglia e riduce quelli di riposo. Dapprima è il rifiuto categorico di ingerire qualunque tipo di derivato animale a muovere la protagonista, ma il rigetto presto si trasforma in qualcosa di altro.

    Premio Nobel per la letteratura 2024

    “È COSÌ TERRIBILE MORIRE?”

    Han Kang ci regala un intenso e inquietante profilo della protagonista attraverso una complessa intessitura di visioni. Segue in tre atti la sua metamorfosi decodificando i linguaggi che caratterizzano ciascuno sguardo. Infiltrandosi nell’egoistica quotidianità del marito, salpando nei mari profondi di desiderio e perversione del cognato, fino ad approdare nella conturbante dimensione della sorella.

    Yeong-hye si sposa con un uomo spaventato. La sua non è una scelta, ma un dovere. Un compito da assolvere. Un ruolo che assume senza opporsi, ma dal quale si mantiene estranea. Ha sempre saputo guardare oltre, per difendersi, ma quello sguardo si è spinto troppo in là e non è riuscito a trovare la via del ritorno. Forse non ha voluto.  Uno dei primi dettagli che connotano la sua tacita assertività è l’abitudine a non portare il reggiseno, elemento che il marito, dedito all’approvazione altrui, non vede di buon grado, ma che decide essere innocuo e insufficiente a compromettere l’immagine di cittadino modello. Sua moglie rappresenta infatti un adorno, un biglietto da visita per quella che è la figura di encomiabile impiegato.  D’altronde un uomo spaventato è anche un uomo spaventoso, e quando il fragile equilibrio del matrimonio si lacera, la forza del non detto si insinua a stravolgere l’assetto di dominio e di subordinanza, schema a capo di una precisa visione di mondo.  E quell’infinitesimale stortura che è la scelta di abbigliamento di Yeong-hye inizia a raccontare una storia decennale di silenzi costretti, abusi psicologici e atti di alimentazione forzata.

    Il cognato girovaga inappagato tra vita familiare e professionale. La prima al fine di espletare i suoi bisogni fisici e corporali, la seconda per dare sfogo a necessità interiori, manie e ossessioni che solo attraverso la sua arte possono trovare un canale di sfogo accettabile. Il lavoro è l’unico motore rombante della sua esistenza. Immerso tra ricerche, schizzi, mentre la pellicola della sua videocamera immortala nuovi ritratti, oblitera i suoi compiti di padre e marito.  Yeong-hye rappresenta un esperimento. Riconosce in lei un essere fuori dalla norma, vagabonda in una landa abitata da persone che non la comprendono.  Attraverso il suo corpo realizza il suo più grande capolavoro. Nella traversata però qualcosa cambia. Trova lo spettro di se stesso, o forse è solo la dimensione psichedelica nella quale si è fatto strada a rigettarlo, come si fa di un cibo disgustoso. E dal rigurgito che è lo smembramento di ciò che prima era intero, una diversa misura di esistere deve imparare a stare al mondo.

    A ricomporre le macerie di un matrimonio, una moglie, una madre, una figlia e una sorella. Minatrice instancabile dell’anfratto cavernoso che incombe minaccioso su di lei.  Primogenita di una famiglia tradizionale sud coreana. Ritratta mentre scava il sentiero che rende il cammino fruibile. Mentre barcollando nell’oscurità traccia delle linee per tirare fuori Yeong-hye dal labirinto in cui è sprofondata. Ma Yong-hye è la seconda di tre figli, vittima per eccellenza degli abusi del padre, vittima una seconda volta dei soprusi del marito, poi ultima carnefice e salvatrice di se stessa.  Rimanere a galla non è facile, non quando un peso ti tira a fondo. Ma basta un solo cenno, uno sguardo che dica basta alla violenza, in ogni sua forma, per arrendersi completamente al corso naturale di tutte le vite. Anche quando il cammino accelera improvvisamente la sua andatura e quella velocità sembra togliere tempo prezioso, e altro non rimane che un’atroce domanda, pendente dalle labbra di chi glaciale la pronuncia: “È poi così terribile morire?”. 

    LEGGERE TRA LE RIGHE: UNA STORIA CHE VA OLTRE L’IMMAGINATO

    Il corpo di Yeong-hye è un atto politico. La metamorfosi è l’estrema manifestazione della sua impenetrabile volontà. Niente può entrare in lei. Decide di diventare invisibile, perché al di fuori dello sguardo altrui, siamo finalmente liberə.  La scrittura di Han Kang è scarna, sempre più simile alla magrezza della sua protagonista. Non comunica solo con le parole, proprio come Yeong-hye che parla pochissimo, perché la sua metamorfosi si serve di un linguaggio diverso. Riconosciamo negli altri ciò che cerchiamo in noi stessi, ma quello che Yeong-hye trova è agghiacciante, perché racconta una verità scomoda, una realtà a cui dare le spalle per paura di cambiare, per paura di perdere il privilegio.

    L’autrice sembra denunciare una Corea del sud sempre più globalizzata e tecnologica, ma che porta dentro un sistema culturale ancora radicato nella misoginia, nella vergogna che le donne devono avere del proprio corpo, come di un monito che le perseguita dalla nascita e le accompagna fino alla morte. Un avvertimento che ogni persona non allineata all’idea che la società ha già prestabilito per lei ne subirà le conseguenze, e non potrà lamentarsene. Yeong-hye è quindi un’eroina controcorrente: rivendica i resti di sé che gli uomini non si sono ancora presi e lo fa infischiandosene del dolore che può causare, perché il suo è così assordante da non lasciare spazio di replica, e solo lei può sapere come intervenire. La sua pelle è un campo disseminato di indizi: l’infanzia di abusi, un padre violento, il rifugio nel bosco, così accogliente, così calmo. La ricomparsa nel bosco, non più come individuo, bensì come albero, vegetazione in mezzo a una landa di verde. Ritornare a uno stadio primordiale, come la macchia mongolica che la contraddistingue e che rappresenta una previsione di rientro, ma questa volta in un’altra forma, sotto un altro aspetto.

    Yeong-hye non ha mai chiesto di essere salvata, se ne è andata, per non voltarsi più indietro.

  • Un vecchio frammento di ceramica riporta a galla una storia nascosta, tenuta al sicuro nel ricordo di chi tanto avidamente la conserva. Questo è il primo fugace ritratto di Isabel: una figlia devota che abita la casa della madre defunta. I suoi due fratelli, Louis e Hendrick, hanno deciso di vivere altrove, lasciandola sola a rispolverare maniacalmente la vecchia argenteria di una donna ormai assente.  Siamo nei Paesi Bassi, corrono gli anni ’60. Decine di migliaia di famiglie hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni nel corso della guerra e del dopo-guerra causa il costo inaccessibile della vita e la mancanza di risorse economiche per affrontare l’inflazione. Una piccola parte benestante della popolazione d’altronde, occupa quelle dimore solitarie che ancora conservano i segni di coloro che le hanno abitate. L’estranea di Yael Van Der Wouden affonda le sue radici in questo clima storico di tensione e risentimento, dissotterrando segreti a lungo silenti.

    La vita di Isabel è monotona e appartata. Il suo carattere diffidente e introverso non le permette di conoscere il diverso, di aprirsi a nuovi incontri per scoprire qualcosa di sé che ancora ignora. Fino a quando non si presenta alla porta la nuova fiamma di suo fratello Louis: Eva, una giovane ragazza dai capelli vividamente gialli, una tinta che ne ha coperto la sua natura, ma che intorno alla nuca perde di vigore, mostrando il castano sottostante. Un dettaglio che passerebbe inosservato a un occhio poco indagatore, ma che accende in Isabel un sospetto, un presagio che non tutto quello che Eva presenta di sé sia autentico, come una crepa che lasci intravedere uno spiraglio, un’ombra al suo interno.

    BREVE RITRATTO DEI CO-PROTAGONISTI

    Eva è sfuggente, brilla di una travolgente energia, la sua inesauribile allegria coinvolge le persone che le stanno attorno, trasformando ogni ritrovo in un piacevole e spensierato scambio di aneddoti e risate. Tuttavia, la sua irriducibile estroversione non parla mai di sé. La sua origine è ignota. Un’aura di mistero la avvolge, ma solo le persone più sensibili percepiscono quel vuoto che tanto meticolosamente Eva cerca di colmare. Ogni tentativo di avvicinamento a Isabel viene respinto da quello sguardo giudicante. Ma un’inevitabile attrazione cresce tra le due, tendendo sempre di più il filo sospeso tra verità e menzogna.

    Hendrick sa che se vuole vivere secondo le sue regole e i suoi bisogni, deve scappare dalla casa materna. Una gabbia che rafforza le sue sbarre ogni volta che un figlio prende posizione sulla sua vita, ogni volta che lotta per realizzarne i diritti. Non è facile lasciare gli affetti, specialmente quando sono gli stessi che negano la propria identità, ma restare uccide. Hendrick ne è consapevole, e anche se fuggire significa lasciare tutto indietro, compresa la sorella, l’eco di una vita che segua i suoi valori e le sue esigenze, risuona sempre più forte nello spazio vuoto in cui poter essere.

    Louis naviga il mondo con la consapevolezza di chi un posto per esistere ed essere riconosciuto se l’è guadagnato. Eppure per un ragazzo bianco, eterosessuale e benestante, non è necessario sudarsi la validazione altrui, ogni angolo sociale promuove già la sua immagine, definendola standard, precludendo a chiunque non sia conforme di penetrare. Con la stessa leggerezza affronta l’amore e le relazioni. Ogni nuova infatuazione è oggetto di attento scrutinio familiare, sia dell’occhio indagatore di Isabel che dell’affabile sguardo di Hendrick. Quando Eva entra nella sua vita, non rimane altro da fare dunque che presentarla ai fratelli, declamando il suo grande sentimento, convincendosi ancora una volta che sia quella giusta. 

    UN CICLO CHE SI CHIUDE: EVA E ISABEL (SPOILERS INCOMING)

    Il primo incontro tra le due giovani è a tutti gli effetti uno scontro. Isabel osserva guardigna l’ennesima estranea che il fratello Louis porta a cena. Non sopporta la presenza ingombrante di un’altra figura. Un’altra voce a tavola che scompigli l’ordine a cui Isabel è tanto devota.  La questione si infittisce quando le due diventano coinquiline. Louis è richiesto altrove per impegni di lavoro, decide quindi di lasciare Eva in compagnia della sorella.  La casa diventa un campo di battaglia, parole taglienti vengono pronunciate a ribadire l’enorme distanza che regna tra le due. Ma nel placido trascorrere delle ore, si insinua nell’animo di Isabel un pensiero, un’idea scomoda, che poco a poco risulta impossibile da ignorare. La percezione che tutto quell’odio non sia altro che la paura di uscire allo scoperto, di mettersi a nudo davanti al mondo, davanti a se stessa. Un riflesso di un desiderio inespresso, ma che prepotente reclama il suo posto e alza la voce.  Il suo corpo lo comunica: ogni sguardo rivolto alla giovane ospite è una domanda, la conferma di quello che sente. 

    Quando le ragazze si abbandono alla loro travolgente passione, nulla sembra poter rompere l’incanto. Ma Eva non dice tutta la verità: quella casa che insieme riescono a rendere uno spazio di liberazione, appartiene più alla nuova arrivata di quanto Isabel non abbia mai immaginato. I piccoli frammenti di ceramica, il servizio da tavola, pezzo dopo pezzo scompaiono, rimossi dall’inconsapevole presente di una per confluire nella perduta infanzia dell’altra. Ogni tassello che Eva sottrae alla sua coinquilina non è altro che un ultimo tentativo di risanare l’ingiustizia che l’ha vista protagonista insieme alla madre, quando la protezione di un tetto le è stata negata. 

    Una notte d’amore non basta a rimarginare il divario che si apre ogni bacio di più, ogni abbraccio di più. Pronte a inghiottirle una volta grande abbastanza. Nell’impercettibile rumore di due assi che si separano millimetro per millimetro, un’intuizione altrettanto discreta si diffonde in Isabel. Il diario che Eva arricchisce ogni notte di nuove parole, nascosto alla vista dell’amante, accende in lei una crescente curiosità, decide così di appropriarsene nella speranza di capire di più di quella donna tanto concreta quanto evanescente. Ogni riga parla di Eva come mai prima d’ora, ma quello che racconta non coincide con ciò che Isabel ha imparato a conoscere. Una cocente delusione pervade ogni senso, non esistono ragioni che possano valere, è un tradimento in piena regola. La donna che ama l’ha colpita nel suo momento di maggiore vulnerabilità. Ha amato e ha perso tutto. 

    Del resto quella rapida e glaciale sentenza è frutto di una profonda ignoranza: il diario racconta tutto, anche di come a causa della guerra e dei costi inaccessibili della vita, la famiglia di Eva avesse dovuto cercare fortuna altrove, nella speranza però di poter fare ritorno; racconta quindi di come la loro proprietà fosse stata ormai occupata e persa per sempre. Ancora approfondisce gli stati d’animo della sua autrice: l’iniziale distacco nei confronti della cognata fredda e burbera, e infine la realizzazione dei sentimenti che testardi si inseriscono nei difettosi ingranaggi del suo piano. 

    L’estraneità non è solo di chi inaspettata si presenta alla porta altrui, ma anche di chi quella soglia l’ha varcata da tempo, senza sapere di quale storia si è appropriata nel suo passaggio.

    RIFLESSIONI E CRITICITÀ DI ESTRANEA

    La narrazione seppur scorrevole si presenta affrettata in alcuni momenti non permettendo ai labili sentimenti che tra le protagoniste iniziano a prendere forma di attecchire nella tela descrittiva del romanzo. Lo sguardo dell’autrice, attento e intimo nella riproduzione di dettagli ed elementi che caratterizzano la psicologia dei suoi personaggi, talvolta incorre in piccoli inciampi etero-normativi: molte delle scene che esplorano dinamiche omoerotiche, reindirizzano a ridondanti modelli e codici propri della sessualità maschile. In questo modo la relazione tra le due donne perde il suo valore e la sua unicità, ancora una volta messa a confronto e rinchiusa in una categoria a sé stante, privata della possibilità di diventare norma, di definire le regole che ne legittimino la sua esistenza.

    Il romanzo verte su un’ultima scena finale: un climax crescente che sfocerà in un cambiamento inaspettato degli eventi, capace di sovvertire le aspettative costruite dal lettore nel corso del racconto. Tuttavia l’attesa non è adeguatamente ricompensata: il colpo di scena non ha una forza narrativa tale da perturbare gli ordini che si erano andati a consolidare durante la lettura. Ricorda molto una versione meno elaborata di Fingersmith, celebre romanzo di Sarah Waters, autrice che non smette mai di travolgere trame e personaggi, convinzioni e credenze. Yaen Van Der Wouden sembra voler attingere alla maestria della rinomata scrittrice, non riuscendo però a carpire appieno le tecniche narrative che le consentono di infondere maggiore profondità e tensione, elementi che qui risultano in parte assenti.

    D’altro canto, raccontare significa puntare un cono di luce su realtà che nell’ombra hanno imparato ad affondare le proprie radici, respirando silenziosamente, relegate ai margini della narrazione dominante. Estranea permette così di esplorare nuove dinamiche e intrecci, storie di vita degne di essere ritratte, riconoscendone l’intrinseca forza vitale.

    La casa diventa oggetto e luogo del desiderio, uno spazio di assoluta confidenza e intimità, dove un filo si contrae e si estende al ritmo dei corpi che la abitano. Ma che succede quando quello spazio diventa terreno di lotta tra due individui che a modo loro hanno subito un furto? L’inconsapevolezza di Isabel e il bisogno di rivendicazione di Eva. Allora quel filo deve trovare nuove forme, reinventare la sue misure per contenerne bisogni e richieste. Non è facile trovare un compromesso, ma Yael Van Der Wouden ci regala un finale che prescinde dalla recisione di due vite che erano destinate a incontrarsi per ricomporre quei tasselli sottratti alla loro infanzia, ritrovando nella passione e nell’amore, una nuova possibile prospettiva di serenità, e di questo ne siamo gratə!

    Yael Van Der Wouden finalista al Booker Prize 2024

  • “Non rimpiangere, ricorda”. Con queste parole si conclude l’isolamento utopico in cui sono state confinate le due protagoniste. La consapevolezza che presto si dovranno separare non le abbandona. Non basta una notte o mille per dimenticare, ma solo un secondo di reminiscenze per riportare a galla un sentimento profondo che lascia senza parole, e induce al segreto tra due donne, due anime legate per sempre da un vincolo che si stringe intorno a loro contro l’immensa distanza che le dividerà.

    Heloïse chiama Marianne, le ordina di girarsi. Così come Euridice ed Orfeo si abbandonano sulla soglia della loro libertà, si guardano e si dicono addio, conservando nella memoria l’immagine radicata nel cuore del loro amore.

    Non servono troppe parole per riempire gli spazi della scena cinematografica, un’inquadratura sul mare mosso dalle onde, i colori vivaci della natura e delle scogliere taglienti. È nel silenzio che fioriscono idee e pensieri. Il silenzio abbatte la parete che divide lo spettatore dalla scena, si insinua nell’intercapedine che separa finzione e autenticità, rendendoci i discreti testimoni di una realtà spesso soffocata. Stavolta però il silenzio non è sopraffazione, non si configura nelle maglie del controllo patriarcale, è un’arma che restituisce respiro, spazio e libertà.

    UN DIPINTO, UNO SPECCHIO

    L’intero film è come una tela dove Marianne ed Heloïse ritraggono la loro storia, l’una con gli occhi dell’altra. Come se si fondessero in una sostanza unica, dalla celebre scena della pittrice che guarda il soggetto del dipinto e quest’ultima, in carne ed ossa, che guarda la pittrice, nasce il “se tu guardi me, io chi sto guardando?”  Tutto diventa uno, e dalla molteplicità di sguardi sorge una sola prospettiva, quella della memoria.

    In una realtà dove la donna è subordinata all’autorità maschile, soggetta alle decisioni altrui, confinata in se stessa, senza via di redenzione né di fuga, le due protagoniste si ritagliano uno spazio al di fuori dell’attualità. Rompendo la tela spazio temporale che le tiene ancorate al mondo, evadendo dalle catene sociali alle quali sono irrimediabilmente legate. Abitando un luogo che solo loro conoscono, dove scoprirsi e cercarsi.

    Durante la seconda metà del film Heloise concede a Marianne di ritrarla, ma non è forse questa l’arresa nei confronti del futuro? La modella si arrende allo sguardo della pittrice, le permette di entrare nel suo mondo, ma consente a un’atroce duplicità di interporsi tra sé e il soggetto ritratto: se il dipinto è portato a termine, il matrimonio diventa una realtà sempre più tangibile, sempre più vicina.

    “Non è per me che avete distrutto il quadro precedente, l’avete fatto per voi”

    “Vorrei distruggere anche questo”

    “Perché?”

    “Perché a causa sua, vi devo dare a un altro”

    Durante un’accesa discussione le protagoniste si trovano a fare i conti con l’epilogo della loro storia d’amore. Il quadro è concluso, la modella è stata catturata sotto una nuova luce, lo sguardo immortalato su tela non è altro che la visione più consapevole di Marianne. La pittrice d’altro canto si chiede se non avesse dovuto distruggere quest’opera come la precedente, in fondo la pennellata conclusiva non è che un altro promemoria di quello che avverrà dopo. Un ultimo grido disperato prima di perdere tutto. Ma si tratta davvero di perdere?

    Forse Marianne ha solo paura di lasciare andare, e in un brusco movimento al fine di riottenere il controllo, esercita inconsapevolmente quello che l’uomo ha adottato per secoli come forma di conquista e sopraffazione del femminile. Guidata dall’immenso trasporto che sente per Heloïse, si dimentica che la forma più coraggiosa di amare è sbrigliare le redini che ci tengono legati, e che legano chi amiamo.

    L’ABORTO NON ANNULLA LA VITA

    Céline Sciamma ci sorprende ancora una volta dando alla luce una delle scene più significative e poetiche del film: l’aborto della domestica avviene in una piccola stanza, due bambini si aggrovigliano intorno al suo corpo durante l’operazione. In un attimo siamo travolti da un profondo senso di scelta e libertà personale, collocandoci ancora in un luogo estraneo alla realtà. Non a caso la scelta di ambientare l’intero film su un’isola, con un cast di sole donne, dove la figura maschile non è altro che un labile accenno nella telecamera e un richiamo al futuro a cui Heloïse è tragicamente destinata.

    Giovanni Segantini, Le cattive madri

    Tra le protagoniste si instaura un rapporto di sorellanza indelebile, non c’è divisione sociale, non si giudicano le decisioni altrui ed ognuno vive nella propria e personalissima isola interiore, un posto adatto ad accogliere il cambiamento delle stesse, le loro metamorfosi nel corso della storia.

    L’ESTATE DI VIVALDI

    Il ritratto della giovane in fiamme è un lungometraggio dalla poetica intrinseca nello sguardo della regista, nell’occhio che scruta tutto e tutti, senza tralasciare un singolo movimento, cavalcando con leggiadria il moto incessante dei suoi caratteri erranti.

    Marianne inspira ed espira prima di entrare un’ultima volta nella stanza della ragazza vestita da sposa, pronta a raggiungere l’orizzonte degli eventi, poi un abbraccio fugace, cercando di imprimere nella mente l’odore della sua pelle, il calore del suo corpo contro il suo. In secondo piano la presenza della madre simboleggia una società settecentesca ancorata a valori conservatori e misogini, gli stessi che non permettono alle due giovani di agire sul proprio destino, di firmare con il proprio nome il quadro della loro vita.

    “Giratevi” pronuncia Heloise in abito nuziale, esattamente come un tempo la vedeva Marianne nei corridoi della dimora. Un ultimo riflesso di quello che è stato e non potrà più essere e al contempo sarà sempre.

    La musica intelligentemente studiata risalta nei momenti di fragile equilibrio, e a conclusione dell’intera opera cinematografica. Marianne la rivedrà un’ultima volta, immersa nell’ascolto dell’orchestra sottostante, la stessa musica che anni prima aveva acceso un lume in lei, una luce ancora viva che vibra come le corde degli strumenti che compongono la melodia del ricordo. La vede e rimane immobile, osserva da lontano il risveglio di una memoria cristallizzata nel tempo, consapevole che allo sciogliersi dei ghiacciai, le acque riportano tutto indietro.

  • UN BREVE INSIGHT NEL ROMANZO DI SARAH WATERS

    I bagliori morenti di un fioco tramonto sono gli unici a rischiare Lant Street, quartiere lugubre e squallido di una Londra alle prese con un’imperante industrializzazione. Una città che si copre di nebbia e fuliggine, animata da grandi innovazioni tecnologiche da un lato, e da una dilagante miseria dall’altro. Lant Street non è altro che uno di quei luoghi dimenticati, uno spaccato di realtà nel quale le figure di Susan Trinder, Ms. Sucksby, Mr. Ibbs svolgono il loro lavoro di “ladri onesti”, ritraendosi come una squinternata combriccola la cui fortuna improvvisamente ha la possibilità di volgere a loro favore.

    Nella desolata Briar si erge una dimora imponente, ma logora. Le pareti degradate e ammuffite cozzano con l’antica maestosità della residenza. Una casa silenziosa, quasi morta. Si direbbe che chi la abita sia un’estensione della sua apparente fatiscenza, ma giovani cuori albergano nelle sue stanze, Maud Lilly ne rappresenta un piccolo e potente tassello.

    Fingersmith, miniserie televisiva

    Due giovani destini legati da una perfida macchinazione trovano un posto sicuro dove amarsi, scoprirsi e venire a patti con il proprio passato.

    Tutto ha inizio con l’arrivo di Gentleman, giovane truffatore che ha nelle sue mani il potere di stravolgere una vita e guadagnarne diverse migliaia di sterline.  Attraverso una buona dose di dialettica, furbizia e sete di ricchezza, convince Sue Trinder a partecipare al diabolico progetto con la promessa di ricevere una parte del bottino: diventerà la cameriera della giovane ereditiera Lilly e la persuaderà ad accettare la proposta di matrimonio del gentiluomo, soltanto per accaparrarsi tutta la sua ricchezza e spedirla in secondo luogo in manicomio. La faccenda si complica quando le emozioni entrano in gioco, e la loro relazione muta dalla semplice amicizia. 

    Quello che del resto la giovane ladra ignora è che gli ingranaggi di quel che le appare un malvagio ma efficiente piano, le si rivolgeranno contro, mettendola dinanzi a una realtà menzognera e sconvolgente.

    CHI È LA SERVA E CHI LA PADRONA? (SPOILERS INCOMING)

    A Briar, Maud deve bisbigliare, ogni parola è pronunciata secondo un flebile sussurro, così richiede il Signor Lilly, che alleva la giovane nipote ad essere la sua diligente segretaria. La ragazza diviene mezzo grazie al quale gli atti osceni descritti nei tomi di cui suo zio ha una cura maniacale, possono prendere vita a favore del piacere del suo infimo pubblico di editori. Maud non deve urlare, non deve ribellarsi, non deve dissentire. Il dissenso va soffocato sotto la pila di centinaia di letture, sotto l’intransigente e disinteressato sguardo di chi fa le veci di suo tutore.

    L’arrivo di Sue, d’altronde, turba l’ordine al quale a Briar si è soliti far riferimento nell’adempimento dei proprio compiti. Le giornate sono scandite dal costante rintocco di un orologio a pendolo, ogni evento è teso al metodico scoccare delle sue lancette. Ogni membro della residenza sembra partecipare al funzionamento di un ordigno sofisticato, il cui movimento, sempre identico a se stesso, non può essere fermato. Sarà quindi Susan a stravolgere la rigida routine della sua padrona. Tra le due si instaura una connessione che elude tempo e spazio, ma che conosce la sua imminente fine, e più la loro relazione si rafforza, più il rimorso e la paura crescono nei loro animi. 

    Sue non è la sola ad essere divorata dai sensi di colpa, la sua conoscenza del complotto di cui fa parte è terribilmente parziale. Richard Rivers, anche conosciuto come Gentleman, ha avuto modo di incontrare Maud durante le sue sessioni di lettura serali, accedendo in quel mondo isolato nel quale la giovane è costretta a vivere. Il disincanto della signorina Lilly è palpabile, così come il suo pervasivo bisogno di libertà. Appare dunque come la complice perfetta.

    Presa conoscenza del progetto di arricchimento di Rivers che si può solo avverare con la consacrazione del matrimonio tra i due, Maud ne riconosce i vantaggi: solo sposandosi potrà lasciare la casa di suo zio e avere una somma di denaro che la sostenti. È sufficiente questa immagine a scacciare le ombre che in un primo momento infestano la sua mente: se tutto va a buon fine, la nuova cameriera assegnatale, verrà internata in un ospedale psichiatrico. Il piano è finalmente in azione, ogni recluta rispetta il proprio ruolo, ma l’avversione verso il signor Rivers sembra imparagonabile quando ogni cosa volge al termine: Sue viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico, mentre Maud passa a sua insaputa dalle quattro pareti della dimora di Briar alle altrettanto stantie e limitate mura di Lant Street. Un segreto per decenni nascosto viene a galla.

    IL POTERE DELLA CULTURA QUEER

    Il romanzo di Sarah Waters ritrae senza abbellimenti né edulcorazioni la vita della fascia povera londinese verso la metà dell’Ottocento. Qualifica i suoi personaggi e non categorizza nessuna presenza femminile alla sua docile e mansueta natura. Le taccia bensì di terribili difetti, avidità e bisogni. Una prospettiva sul femminile spesso censurata, una natura viva e reale di cui necessità, storture e imperfezioni non sono altro che un caleidoscopico frammento che alberga nei nostri spiriti.

    Al termine delle disastrose confessioni, Maud e Sue riescono a ricongiungersi, sono state le pedine di un piano più grande di loro, vittime di una società opportunista e camaleontica. Sono la dimostrazione di quanto una vita al di fuori delle convenzioni e un amore atipico, possano sancire un’unione tra due anime simili. Il potere della rappresentazione trasuda vita, dona una speranza e accende una luce dove essere lesbiche, gay, bisessuali e qualunque altro orientamento e identità che sfugge agli argini della normatività è considerato una vergogna, una malattia.

    Fin da piccole le viene insegnato che l’unico modo per avanzare di rango è opponendo resistenza, usurpando e ferendo, che solo si può essere forti quando si è soli. Non a caso le dinamiche di potere maschile vedono messi in pratica questi precetti, al quale anche le donne credono di dover obbedire per essere riconosciute e validate.

    Maud e Sue abitano un mondo ingiusto attraverso il quale imparano ad affilare la propria lama, un oggetto contundente che non necessariamente ferisce, ma che se usato con efficacia, diventa lo strumento secondo il quale possono farsi spazio nel mondo, reclamando la propria libertà e il diritto all’auto-determinazione. Senza identità la nostra inequivocabile realtà sembra soccombere alla narrazione del più forte. In un mondo dominato da uomini, l’unica possibile via di redenzione per una donna è spianata dalla presenza maschile a cui è legata: uno zio, un marito, un padre. 

    Sarah Waters ridescrive la dimensione sociale e personale alla quale siamo stati per tanto tempo educati. La voce delle donne appare più forte che mai, non in uno scellerato moto di sopraffazione, ma di liberazione dai dettami della violenza patriarcale. La forza delle storie queer risiede nella loro trasversalità rispetto alla corrente etero-normativa alla quale siamo esposti e indirizzati, tingendo di nuove intricate colorazioni le strade che ci sono state precluse per paura, pregiudizio e abitudine.

  • LE BAL DES FOLLES: UNA RIFLESSIONE SULLE DONNE DELLA SALPÉTRIÈRE

    Eugénie Cléry ha un dono, o forse una condanna: è in grado di parlare con gli spiriti. Un segreto tanto prezioso quanto pericoloso, capace di distruggere la sua vita se rivelato. Sarà proprio una imprudenza, il bisogno di essere finalmente vista e pienamente compresa, a farle confessare la sua pericolosa dote. Ingannata dalla nonna, viene rinchiusa all’ospedale della Salpétrière, celebre centro medico e psichiatrico parigino, fondato da Luigi XIV e attivo fino ai giorni nostri.  Nella struttura sono confinate centinaia di donne: giovani e anziane, sane e malate, mitomani, ladre, depresse; ma anche donne indipendenti, rivoluzionarie, femministe, considerate minacce per l’ordine patriarcale. Sono cittadine che rappresentano lo scarto della società ottocentesca, che si nasconde tra le pieghe di una dilagante ipocrisia, si regge su un tessuto sociale fatto di apparenze, e di una netta, conveniente divisione di classe.  Esiste una piramide al cui vertice ricchi e bianchi borghesi regnano sovrani, una vetta che d’altronde, una donna, benestante e privilegiata che sia, può solo osservare da una adeguata distanza di sicurezza.

    LE ALIENATE

    Tra le mura della Salpétrière le pazienti diventano delle alienate: estranee alla società che le ha formate, soggetti al contempo fragili e pericolosi, qua la sottile ambiguità che circonda queste identità.  Sul modello del celebre ciclo pittorico degli alienati di Géricault, Mélanie Laurent, regista e attrice di Le bal des folles, tratto dal romanzo di Victoria Mas, restituisce nello schermo grande umanità ai volti che lo dominano, ritraendo la profonda ingiustizia a cui le donne sono sottomesse fin dall’infanzia. 

    Ma cosa è l’alienazione se non la percezione di un totale distacco dalla realtà? Queste donne sentono il bisogno di scappare da qualcosa, da qualcuno che le opprime, le violenta, le relega in uno spazio che non le appartiene. Allora in quei momenti, forse essere alienata salva dalla pretesa di una vita che non è la propria, allora in quei momenti, diviene unico antidoto alla perdita di sé.

    Eugénie entra nel dormitorio, i letti distanti l’uno dall’altro formano un percorso labirintico nel quale decine di corpi si alzano, si vestono al mattino, mangiano durante i pasti e a cui fanno ritorno di notte. Le infermiere si occupano di far rispettare la rigida routine. Accompagnano e assistono le pazienti affinché ogni loro esigenza possa compiersi, le sostengono durante le prove mediche e le sessioni di ipnosi alle quali sono sottoposte sotto lo sguardo invadente dei dottori, ma il loro ruolo vale molto più di quello dei medici che esaminano e diagnosticano.  Lo dimostra la figura di Genevive, capo infermiera la cui apparente severità si spezza e si modella alle pene e alle necessità delle sue richiedenti. Una donna che conosce le privazioni di una società che non favorisce, non sostiene nel perseguimento delle proprie aspirazioni, ma incatena ogni esistenza femminile a un ruolo prestabilito.

    Così, tra le anime rinchiuse alla Salpétrière, un labile sentimento di solidarietà va pian pian crescendo quanto più la trama lega le vite delle sue protagoniste. La storia di Genevieve si intreccia inestricabilmente con quella di Eugénie, sarà proprio la giovane internata a comunicare con la sorella defunta della prima, permettendole di ricongiungersi finalmente a lei, in un percorso di de-costruzione e perdono. 

    L’IMMOBILITÀ COME FORMA DI CONTROLLO

    Victoria Mas spiega magistralmente come, in sala d’esame, tra il dottore e il paziente si instaura un intricato rapporto di potere: il primo valuta la sorte dell’altro, il secondo si affida alla parola del primo.  La subalternità è del resto ancora più evidente quando è una donna a oltrepassare la soglia dell’ufficio medico.  Un dottore è consapevole di sapere più del suo paziente, così come un uomo si arroga tale diritto nei confronti di una donna, da questo diseguale rapporto, la paziente non può far altro che temere la visita del medico che manipola il suo corpo, che lo osserva con freddo compiacimento, e ne oltraggia la dignità. È in questo ambiente di sospetto e sfiducia che si evolvono le storie delle internate, è tra quei corridoi che avvengono i più temuti abusi. Molteplici sono le cure vessatorie imposte ai quei corpi che, pur entrando sani, finiscono per ammalarsi. Tra queste le invasive prove ginecologiche, la scienza credeva infatti che l’isteria avesse origine dall’utero, e che quindi solo le donne ne fossero affette. 

    Eppure le cause scatenati non erano mai veramente accolte nella loro cruda autenticità: lo conferma Louise, adolescente che a seguito di un abuso sessuale perpetratole dallo zio, inizia a manifestare crisi e crolli fisici, sintomi che la portano ad abitare quelle sale infestate di morti violente, abusi psichici e pratiche disumane. 

    Quando una donna viene privata della libertà intellettuale e della libertà politica, le si strappa il potere dalle mani, ma quando la si rende incapace di muoversi, relegandola in uno spazio circoscritto e misurabile, le si sottrae la possibilità di auto-determinarsi. Non conta l’infermità, ma l’immobilità.  Un corpo fermo è un corpo dipendente, giudicato incapace di prendersi cura di sé, ridotto a oggetto alla completa mercé maschile.

    L’immobilità nel XIX secolo passa anche attraverso gli abiti, primo tra tutti il corsetto, simbolo di un’oppressione che ancora una volta si rivolge solo a una categoria di persone, impedendole di respirare pienamente, rendendosi attivo partecipe di un lento e progressivo soffocamento. È infatti interessante la scena che si sviluppa parallelamente tra Eugénie e Genevieve: entrambe si spogliano di questo indumento, l’una, rinchiusa in isolamento, strappandoselo a forza, l’altra, sfilando con cura ogni laccio, ormai consapevole che la sorella le è vicina.

    “STASERA È DIFFICILE DIRE CHI È PAZZO”

    Melanie Laurent è capace di far trasparire un pesante senso di staticità attraverso il movimento: le convulsioni che scatenano quei corpi fragili sembrano insieme renderli ancora più deboli e detentori di un’energia rivoluzionaria e liberatrice. Una forma di ribellione ed escapismo dalle catene che le tengono ancorate al suolo ospedaliero.

    Il ballo è finalmente alle porte, siamo condotti in una sala spaziosa, capace di ospitare decine e decine di internate e parigini di buona famiglia, incuriositi da queste figure misteriose, mossi da un desiderio di scoperta. Eppure si annida nella scena un senso di inadeguatezza, sembra quasi che le ballerine siano i saltimbanchi di un circo spietato, attrazioni del divertimento borghese. E proprio in quell’istante sospeso, la sottile linea di confine che separa la libertà dalla follia può sovrapporsi in un attimo, trascinando con sé chi non ha ancora scelto a quale lato appartenere.